Gli Scozzesi a Monfalcone, una storia dimenticata


La città di Monfalcone è stata protagonista negli ultimi mesi della cronaca nazionale ed internazionale per la presenza in città di una affollata comunità bengalese fondamentale per la realizzazione delle grandi navi da crociera realizzate da Fincantieri nello stabilimento della città isontina.

Questo fenomeno si è manifestato a partire dal 2000 in proporzioni sempre maggiori modificando il tessuto sociale della città, ma non tutti sanno che le migrazioni per lavorare nel cantiere hanno avuto inizio subito dopo la fondazione della grande fabbrica da parte della famiglia Cosulich, proprietaria dell’Unione Austriaca di Navigazione. In questo scritto parleremo di questa storia dimenticata che riguarda una comunità di lavatori scozzesi che è stata riscoperta nel libro “In Cantiere” edito nel 1988 in occasione dell’ottantennale della fondazione del celebre cantiere navale che oggi realizza in serie navi passeggeri che sono il vanto dell’industria del Made in Italy.

La prima nuova costruzione di rilievo ordinata dall’Unione Austriaca di Navigazione fu il transatlantico Martha Washington, ordinato ai cantieri scozzesi Russel & Co di Port Glasgow. Con 8.145 tonnellate di stazza lorda, fu varato il 7 dicembre 1907, mentre la partenza per il primo viaggio risale al 22 maggio 1908. Fu così che i Cosulich poterono sperimentare la leadership dell’industria navalmeccanica della Gran Bretagna di quel tempo.

Callisto Cosulich decise così di affidare la Direzione Tecnica del neonato Cantiere Navale Triestino all’Ingegnere scozzese James Stewart, già alle dipendenze dell’Unione Austriaca di Navigazione come ispettore tecnico, il quale fece venire dalla Gran Bretagna a Monfalcone (allora austriaca) circa 200 operai qualificati per le varie categorie del gruppo ferro, mentre per la carpenteria in legno si rivolse a maestri d’ascia lussignani ed istriani. Saranno costoro (oltre alla scuola di carpenteria navale che viene aperta all’interno del cantiere nel 1911) ad addestrare i molti giovani che provenivano dai vari paesi del Monfalconese. Per i lavori più pesanti di manovalanza nell’Officina Navale, e per le categorie dei ribattini e dei criccatori la preferenza andò invece alla gente del Carso (zona di Doberdò), o a contadini fatti venire dall’interno dell’Istria.

Nell’aprile 1908 i “britannici” erano 35, ma di lì a poco ne arrivarono altri 150, mentre furono assunti localmente i lavoratori non qualificati. Il perché dell’assunzione dei sudditi di Sua Maestà è presto detto. I carpentieri in ferro del Cantiere San Marco e dell’Arsenale del Lloyd (che potevano venir facilmente attirati a Monfalcone con salari più alti) erano abituati a lavorare in una realtà in cui il guadagno d’impresa era assicurato dal rapporto ormai consolidato con una committenza di stato (era il caso del San Marco che da un decennio ormai lavorava soprattutto per la I.R. Kriegsmarine), o dallo stato fortemente assistita (come avveniva per l’Arsenale del Lloyd).

La celerità e puntualità nelle consegne ha un’importanza certamente minore rispetto al rilievo che questi fattori assumono a Monfalcone, dove i Cosulich devono appena conquistarsi la loro fetta di mercato. Al San Marco poi, nelle costruzioni militari (e in particolare per le navi da battaglia) era prioritaria l’esigenza di realizzare un prodotto accurato e perfettamente rifinito. Questo aveva abituato gli operai ad acquisire una “professionalità” che era al tempo stesso gusto del lavoro ben fatto e strumento di potere per sottrarsi ad eventuali pretese di intensificazione dei ritmi e di accelerazione del ciclo produttivo. Molto meglio, quindi, per i Cosulich, viste le opposte esigenze che essi avevano, affidarsi a dei professionisti formatisi nei cantieri di un paese, nel quale da decenni ormai l’industria navale operava con un’ottica produttivistica e di mercato (che per altro gli imprenditori originari di Lussino conoscono molto bene).

In questo senso, grazie alle tecniche e alle consuetudini di lavoro portate dagli operai britannici, a Monfalcone si introdussero procedimenti più sbrigativi (a volte le novità erano molto banali, come l’uso del gesso al posto della matita per fare i rilievi con i quadrelli, e tuttavia anche queste servirono per risparmiare tempo), tanto che, verità o leggenda, circolerà la voce che il capocantiere del San Marco di Trieste abbia trascorso un periodo a Monfalcone “mascherato” da semplice operaio, per “rubare” qualcuna delle innovazioni portate dalla Gran Bretagna.

Ci fu però anche un rovescio della medaglia nell’assunzione di questi operai: costavano molto all’impresa (guadagnavano infatti da 12 a 15 Corone al giorno, mentre un professionista locale arrivava al massimo a 8-10 Corone); esigevano il rispetto delle abitudini d’orario britanniche, generando malcontento negli altri operai (e da ciò nacquero i due primi scioperi nel 1908); non rappresentavano certo un buon “modello” per disciplinare i comportamenti dei giovani che venivano dalla campagna («guadagnavano 12 Corone al giorno e ne bevevano 16», è la battuta che si tramandava nella memoria orale dei cantierini). Perciò, anche in considerazione della crisi che l’impresa attraversò nel 1909-10, i loro contratti non vennero rinnovati, e, fatta eccezione per alcune decine, a partire dal 1910-11 furono sostituiti da operai di mestiere muggesani e triestini.

I pochi superstiti lasciarono Monfalcone allo scoppio della Prima Guerra Mondiale quando diventarono ufficialmente “nemici” dell’Impero. Invece proprio alla vigilia del conflitto, il Direttore tecnico, lo scozzese James Stewart, sebbene avesse già raggiunto un accordo preliminare per il rinnovo del suo contratto accentando la cittadinanza austriaca, lasciò alla fine del maggio 1914 il CNT, per assumere l’incarico di direttore dei cantieri statali ottomani. Terminava così l’esperienza delle maestranze del Regno Unito a Monfalcone lasciando in eredità anche l’impronta dei propri villaggi operai che sarà ripresa nel dopoguerra per realizzare il quartiere di Panzano.

Più in generale l’impronta dell’immigrazione nel Monfalconese dopo la fondazione del CNT fu forte sin da subito, basta leggere i dati demografici del territorio. Tra l’inizio de secolo e lo scoppio della Grande Guerra, la popolazione di Monfalcone passò da 4.500 a 12.000 persone; un incremento dovuto all’insediamento di nuove industrie come il CNT, che nel 1914 occupava circa 3.400 addetti. Ovviamente il territorio non era in grado di fornire la manodopera necessaria, così giocoforza la Bisiacaria divenne subito un polo d’attrattiva per chi era in cerca di lavoro.

Nel 1919 fu la volta della migrazione dei gallipolini testimoniata ancora oggi dal gemellaggio di Monfalcone con la città di Gallipoli. Dopo il secondo conflitto mondiale fu la volta degli esuli istriani, fiumani e dalmati che presero il posto degli operai “rossi” a loro volta emigrati in Jugoslavia. Infine a partire dal 1989 giunse in città un folta comunità proveniente dall’Italia meridionale per allestire la prima nave da crociera di nuova generazione, la prima Crown Princess. Così con il boom delle navi bianche giunsero in città anche albanesi, rumeni, serbi ed infine per ultimi (e anche i più numerosi) i bengalesi.

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Matteo Martinuzzi

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